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Notizia 25/05/2021

«Si vede solo ciò che si osserva, e si osserva solo ciò che già esiste nella mente»





Vi racconto una cosa che sto imparando nel mio nuovo percorso lavorativo, facendo ricerca del personale e avendo l’occasione di parlare con le persone più diverse. Ci penso spesso e, mi chiedo altrettanto spesso, quale sia la cosa migliore che un selezionatore possa fare durante il colloquio di candidati.

Ed è proprio per cercare di spiegare questo processo che scrivo oggi.

La risposta potrebbe essere apparentemente “semplice” perché si deve cercare di valutare il meno soggettivamente possibile l’intervistato, ma nella realtà pensare di fare una valutazione oggettiva è molto difficile.

In seguito a tanti colloqui, anche se non sono mai abbastanza, ho imparato quanto importante sia, dopo essermi fatta una prima impressione, fermarmi a pensare e osservare accuratamente quanto è stato detto durante l’intervista, cercando di non farmi influenzare eccessivamente dalle mie impressioni personali, evitando di dare voce anche a giudizi e pregiudizi.

La selezione è finalizzata a trovare la miglior soluzione, ma comunque un compromesso, tra le esigenze aziendali e le capacità e caratteristiche del candidato.

Nonostante studi approfonditi e metodologie comprovate sul tema, l’intervista è in sostanza una “chiacchierata tra persone” e le distorsioni cognitive, “bias” che possono intervenire sono molte e toccano gli ambiti più vari soprattutto quando nei colloqui conoscitivi si vanno a valutare degli aspetti caratteriali, le predisposizioni e i tratti distintivi della personalità.

Ci può essere la tendenza a dare maggior peso alla prima impressione “effetto primancy” oppure alla parte finale del colloquio “effetto recency”, a dare una valutazione positiva o negativa del candidato in quanto ha delle caratteristiche più o meno vicine a quelle del selezionatore.

Una delle distorsioni cognitive più comuni e inconsce è quella che viene chiamata “effetto alone”, cioè la tendenza del recruiter a considerare molto importante una caratteristica specifica del candidato, sia essa positiva oppure negativa, e che questa vada ad influenzare il giudizio complessivo sulla persona allargandosi, appunto, come un alone.

Un altro effetto distorsivo è l’”ancoraggio” dove un’esperienza passata che può essere personale oppure lavorativa va ad influenzare totalmente la percezione che il recruiter ha della persona.

Come posso ovviare a queste distorsioni che influenzano la mia visione dell’intervistato?

Un’altra domanda che mi pongo è se questa tendenza a personalizzare l’intervista vada effettivamente contrastata, o se invece non debba dar seguito alle mie sensazioni. Cerco di capire cosa fa propendere verso un risultato positivo rispetto a uno più negativo.

Solitamente prima di un colloquio mi preparo studiando il curriculum e facendo un elenco di domande che mi possano aiutare nella valutazione all’idoneità del colloquiato al posto di lavoro, mantenendomi sul canale dell’oggettività, e durante l’intervista cerco di restare il più possibile vicina alla realtà, anche se credo che rimanga utopica l’idea che sia possibile una valutazione del tutto oggettiva del candidato.

Sono e rimango un “essere umano” con passioni, vissuti e convinzioni personali che vanno ad interferire con il mio giudizio. Sono il risultato dell’educazione che ho avuto, degli ambienti che ho avuto modo di frequentare e degli studi che ho scelto. In teoria, un buon recruiter dovrebbe innanzitutto riconoscere che esistono queste “distorsioni cognitive oggettive” e dovrebbe ammettere che la possibilità di poter avere dei pregiudizi è molto grande.

Per altro verso dovrebbe provare a ridurre al minimo questo tipo di influenze, cercando sempre le migliori risorse, quelle che si avvicinano il più possibile alla filosofia aziendale, e questo anche per avere credibilità, successo nel suo settore e apportare quindi un maggior valore sia a sé stesso che all’azienda: 'la consapevolezza dei propri limiti è la chiave di tutto'.



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